Siena, agosto 2020                                        

Riprendiamoci il Monte

(Attenzione: sarebbe gradito un cenno di riscontro!)

“Et neuna cosa, quanto sia minima, può avere cominciamento o fine senza queste tre cose, cioè: senza potere, et senza sapere et senza con amore volere”.

(da un trecentesco statuto corporativo della Repubblica di Siena) [1]

Una lunga premessa

Penso che dovremmo fare un incontro incentrato sul Monte dei Paschi. Intanto vi prego di prendere nota di quanto segue: sono le mie personalissime riflessioni e convinzioni da annoso (molto annoso) montepaschino. Le vorrei confrontare con le vostre. La relazione è lunga, ma anche l’oggetto è “bello grosso”.

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  1. Non mi è noto in tutto il pianeta un caso simile a quello che è (era) rappresentato dalla diade Siena/Monte dei Paschi: una piccola città, per giunta decentrata fisicamente e culturalmente, che non ha mai superato i 60 mila abitanti (storicamente sempre sui 20/30mila, oggi 54mila) e che ha saputo realizzare in mezzo millennio un colosso bancario pubblico (ossia posseduto dalla nostra comunità), il più antico del mondo, che aveva raggiunto i 33 mila dipendenti (4 mila nel 1957, quando vi fui assunto a 18 anni), e che fino alla sua privatizzazione nel 1995 aveva raggiunto anche l’invidiabile condizione di terzo o quarto gruppo bancario nazionale e banca più solida e liquida d’Europa.
  2. Il motivo fondamentale dell’unicità mondiale di questo fenomeno, che non esito a definire prodigioso, è che banche di queste dimensioni, se non stanno o non si trasferiscono in piazze come Hong Kong, Francoforte sul Meno, Londra, New York o almeno Milano, in ambienti come quello senese soffocano (è successo al Monte non appena sottratto alla Città con la privatizzazione) o falliscono o comunque rimangono solo piccoli organismi a dimensione locale. Da notare che la ben più celebre Firenze pure aveva il Monte di Pietà fondato un anno dopo quello di Siena. Anzi, nel corso dei secoli ne aveva avuti due o tre, ma tutti spariti per collasso finanziario o assorbimento da altre banche.
  3. Spiegazioni sui motivi per cui questo prodigio invece sia stato possibile solo a Siena non le ho mai sentite. Ho letto molto sulla materia, ma trovo sempre testi che del Monte descrivono la genesi, la storia, i bilanci, le avventure e le disavventure nei secoli, ma mai ho trovato che qualcuno si domandasse “perché” questo prodigio fosse unico, ripeto, al mondo. Eppure la risposta c’è ed è sotto gli occhi di tutti, come dico più avanti. Ma va prima detto che il Monte è praticamente coevo delle Contrade (XV-XVI° secolo), le quali pure hanno del miracoloso. Infatti tutte le città medievali europee, e forse anche oltre, avevano le contrade come ripartizione amministrativa o militare o laica o religiosa del territorio cittadino, ma nessuna le ha conservate fino ad oggi e nessuna comunque le ha portate, con la loro Festa, alla notorietà mondiale: nessuna tranne la piccola e emarginata Siena[2].
  4. Il Monte ha più di una analogia con le Contrade. La prima e la più importante è che ambedue i soggetti devono la loro straordinaria longevità a un elemento caratteriale, storicamente accertato, dei Senesi: il sentimentale, emotivo e viscerale attaccamento (ma forse sarebbe meglio dire autentico amore) alle proprie istituzioni laiche, pubbliche o para-pubbliche o religiose che fossero, come del resto alla propria Città[3]. Non è certamente un caso che i contradaioli siano chiamati ufficialmente “protettori” della propria contrada e non è certamente un caso che il Monte sia definito la 18a contrada. E sia chiaro dunque che i Senesi sono stati i “protettori” del Monte. [4]
  5. Una prova importante e storicamente, per non dire universalmente, nota del rapporto fortemente affettivo dei Senesi con la Città e le sue istituzioni è la cosiddetta Guerra di Siena (1552-1559) che i Senesi, donne comprese[5], combattettero, praticamente da soli per la difesa della loro libertà, contro l’esercito imperiale della Spagna, il più potente dell’Occidente, per giunta rafforzato da quello di una Firenze ormai medicea. Alla fine, dopo ben 7 anni di guerra, dei 25/30mila abitanti solo 5/6mila, ridotti a larve umane, erano ancora vivi. Tutti gli altri avevano preferito morire piuttosto che perdere la libertas. Tanto per capire quanto forte fosse il legame dei Senesi alla loro piccola città basti ricordare che la grande, ricca, celebre, potente, aggressiva e anche arrogante Firenze, contro lo stesso esercito resistette solo 10 mesi e Roma solo 2 ore (e fu il sacco di Roma).
  6. C’è un altro episodio che fa luce sullo stretto legame, anzi su quell’assoluta identità tra Popolo e Banca. Mezzo secolo dopo quella guerra, la Città, economicamente e socialmente, era ancora in stato comatoso e il suo territorio totalmente devastato fino al mare (ancora nell’800 ne erano visibili i guasti). Il principe fiorentino si rese conto che, avendo i Medici instaurato in Toscana un regime di monarchia assoluta[6], tutto ciò che era pubblico e/o statale, era quindi proprietà personale del sovrano. La spaventosa crisi che interessava l’intero territorio senese, aveva messo in gravi difficoltà anche il Monte. Il Medici, temendo di dover far fronte personalmente al suo collasso, decise di abolirlo. A Siena ci furono allora reazioni irate, della cui consistenza non ho cognizione, ma certamente irate abbastanza per una drastica marcia indietro, però a una sola condizione: tutti i Senesi ricchi e poveri, escluso il clero (siamo in pieno clima antiriformista), con ogni loro ricchezza e beni mobili e immobili, restavano personalmente garanti della solvibilità della Banca. I Senesi accettarono e nel 1625 fu affiancato al vecchio Monte di Pietà il nuovo Monte che abbiamo conosciuto fino alla sua letale privatizzazione nel 1995.
  7. Ovviamente anch’io, entrato nel 1957 al Monte a 18 anni grazie al buon esito dell’esame di Stato, ero contagiato da quell’infezione e non facevo alcuna distinzione tra l’amore per Siena, per la Contrada e per il Monte. Ecco perché sono arrivato alla conclusione che qui stia l’unica ragione dell’incredibile, eccezionale fortuna della Banca. Chi fosse di contrario parere sarebbe bene che ce lo spiegasse.
  8. Solo recentemente ho capito come la cosa funzionasse: il volontariato (come in Contrada), ossia il lavoro straordinario non pagato, era la norma (come in Contrada) ma accettato o praticato di propria iniziativa perché era indirizzato a potenziare (come in Contrada) la Banca, la quale portava il 50% degli utili al proprio capitale (arricchimento quindi del “capitale pubblico”) e l’altro 50% a beneficienza e opere di pubblica utilità. Le sere d’inverno quel fenomeno lo si poteva toccare con mano anche dall’esterno: ovunque alle 17 si spengevano le luci di tutte le banche, ma quelle delle filiali del Monte erano accese anche fino alle 22 e oltre perché c’era gente ancora a lavorare. E poi anche il sabato e la domenica eravamo in giro in provincia a contattare imprenditori e risparmiatori. Non venivamo pagati per questo. Ma, senza esserne consapevoli, il premio ce lo prendevamo lo stesso, quando e se quell’attività frenetica avesse avuto successo (e ce l’aveva sempre), perché l’importante era che la filiale in cui lavoravi vincesse il suo Palio, contro tutte le altre banche.  E il Cencio [7] era rappresentato dalla conquista della cima nella graduatoria delle quote di mercato. E come succede spesso per le Contrade e il loro Palio, anche i non senesi tra i dipendenti (non credo che i Senesi nella banca superassero le 4 o 5mila unità) subivano questa forma di contagio.
  9. Un’ultima riflessione personale. Durante i miei 42 anni di servizio ho avuto diverse proposte di assunzione (eravamo ancora in pieno miracolo economico post bellico) da parte di altre banche o aziende, alcune allora anche prestigiose come la Deutsche Bank e la Banca d’America e d’Italia o le Acciaierie Scianatico di Bari, con offerte che avrebbero più che raddoppiato le mie entrate. Senza neanche pensarci ringraziavo, ma non potevo lasciare il Monte: troppi lavori iniziati, troppi programmi di medio e lungo periodo da portare avanti, troppi compagni da lasciare. Ma solo pochi giorni fa, mentre riflettevo su come buttare giù queste note ho capito: per me (e per ogni altro senese) non sarebbe stato mai concepibile, né nel male né nel bene, che potessi cambiare contrada, così come non mi era possibile abbandonare il Monte, la 18a Contrada, per un’altra impresa.

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Ora, se sono riuscito a spiegarmi bene, dovrebbe essere chiaro che il Monte era arrivato dove era arrivato solo grazie ai Senesi e al loro cordone ombelicale costantemente connesso con Siena e la sua Banca [8]. E dovrebbe essere chiaro che il tracollo del Monte è dipeso esclusivamente dalla sua privatizzazione, ossia dalla recisione di quel cordone ombelicale. Ora i Senesi nella Banca non hanno più storia. Anche il Monte, dopo mezzo millennio, potrebbe non avere più storia.

Un progetto per recuperare il Monte alla Città e riportarlo a vincere il Palio

La Banca nacque come Monte di Pietà. All’epoca erano i Francescani a fondare ovunque i Monti di Pietà onde sottrarre le fasce più bisognose della popolazione all’aggressività violenta e feroce dell’usura, ma a Siena il Comune disse no: questa tutela spettava al comparto laico. Così nacque nel 1472 il Monte [9].

Che fare ora?                                                          

Quasi a ricalcare lo stesso percorso del primo Seicento, quando la Banca era in profonda crisi dopo la terribile vicenda della Guerra di Siena, potremmo cercare di mettere in piedi un’iniziativa che proponga a tutta la Città il recupero della banca, nel convincimento che, una volta recuperata, i Senesi l’avrebbero col tempo riportata alla passata grandezza. Non ho dubbi a questo proposito: l’attività migliore sul piano economico che i Senesi sono stati capaci di fare è proprio quella bancaria, a cominciare dal Duecento, quando dominarono i mercati finanziari d’Europa anche più e meglio dei potenti Fiorentini (da ciò le due vie più importanti della Città, sedi delle banche: Banchi di Sopra e Banchi di Sotto). 

Intanto potremmo cominciare con la drastica ristrutturazione dello statuto e della missione della Fondazione MPS, oppure con la sua liquidazione e trasferimento dei fondi residui in una nuova Fondazione non bancaria, ma in grado di contribuire all’operazione di recupero della Banca.

Nel frattempo andrebbe studiato, insieme a qualche grosso esperto del settore economico pubblico, l’istituzione di un ente senese che riacquisti dallo Stato il Monte mediante la concessione di un prestito pluridecennale (99 anni?). Il Monte ha ancora un grande “nome” e secondo me non esisterebbero dubbi che anno dopo anno, tornata la Banca in mano ai Senesi sia nel comparto produttivo che in quello apicale e ricostituita la sua missione tradizionale, gli utili prodotti sarebbero sufficienti a consolidarne il capitale e a rimborsarne il mutuo.

Da tenere infine ben presente un’ultima cosa: tutta questa operazione di recupero, sin dalla sua genesi, dovrà avere la caratteristica fondamentale di ogni impresa “democratica”: la volontà che sale dal basso con l’esclusione quindi di ogni ipotesi di personale “padrinaggio” interessato.[10]

Le alternative

Forse non riusciremo a riprenderci il Monte, ma avremmo fatto una battaglia memorabile, fortemente gratificante. E, a battaglia persa, potremmo pensare a percorrere un’altra strada. Dovremmo ugualmente cercare di ottenere o la liquidazione, come detto sopra, della Fondazione MPS con trasferimento dei fondi residui ad un’altra fondazione di stampo comunale, oppure la drastica ristrutturazione del suo statuto in maniera che venga ricondotta in ambito strettamente locale. Con essa ci potrebbero essere buone possibilità di riuscire a convincere le banche locali della provincia a fondersi in un’unica struttura che riprenda la vecchia missione del Monte. In fin dei conti abbiamo dimostrato la quasi millenaria capacità senese di fare banca più e meglio di tanti altri.

Queste mie riflessioni – un po’ romantiche, lo ammetto, ma non è romantica tutta la storia del Monte e della sua Città? – pretenderebbero da voi una risposta, anche critica, e magari anche assolutamente negativa, senza alternative possibili. Per cui si lasceranno stare le cose come stanno. Ma io da senese non posso restare inattivo di fronte all’ipotesi che il Monte sia assorbito da un altro organismo o vada in fallimento e quindi scompaia in una liquidazione, senza alcuna reazione da parte della nostra comunità. Lo sento emotivamente come dovere personale ma anche come dovere civico.

Per cui, in mancanza di alternative alle proposte di cui sopra, propongo un’azione che necessita di una premessa. Nell’ultima pagina della mia relazione del 27.1.2016 allaCommissione di inchiesta regionale su Monte dei Paschi (v. allegato), cerco di calcolare in numeri il baratro in cui è precipitata a Banca a seguito della sua privatizzazione del 1995. Manca dal calcolo l’importo dell’aumento di capitale, avvenuto dopo quella data, che ha portato lo Stato a possedere il 70% delle azioni del Monte, per cui, miliardo più miliardo meno, il totale degli aumenti di capitale sale a 20 miliardi. Pure tenendo presente che il valore di borsa del Monte alla data odierna (1,4 miliardi), secondo i miei calcoli quel baratro si aggira sulla spaventosa cifra di 100 miliardi [11], roba che farebbe tremare la solida e virile Germania, figurarsi la debole e effemminata Italietta. Nessuno parla dell’entità di quel “buco”, ma se i miei calcoli fossero esatti (chiedo a chi ha più esperienza di me in materia di controllarli), potrebbe prospettarsi alla fine dei conti uno sconquasso finanziario tale da provocare un effetto domino anche fuori dai nostri confini. Ma, peggio, l’intervento della terribile Troyca in Italia, come in Grecia, potrebbe non essere più solo una minaccia.

Credo che allora sarebbe opportuna da parte nostra una campagna di informazione molto dura e diretta specificando che in circa 10 anni la magistratura, sia quella giudicante che quella inquirente, non sembra essere venuta a capo né del perché né del percome e meno che mai del perchì. Ci sono ancora processi pendenti, ma ci sono anche molte archiviazioni. Come è possibile che sia così difficile trovare gli artefici di un danno finanziario e economico di ben 100 miliardi in un ambito, come quello bancario, dove tutto è amministrazione e archiviazione di dati numerici e anagrafici?

Mi rendo conto che una simile azione (della serie: me ne hanno date tante, ma quante glien’ho dette!) non comporterebbe alcuna soddisfazione materiale, ma comunque lascerebbe memoria del fatto che qualcuno a Siena era ancora sveglio. Io in particolare faccio mia questa invocazione di uno che la pensa come me: “Voglio morire da vivo, non vivere da morto”.

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Chiudo, ipotizzando che nei primi giorni del prossimo settembre si possa tenere una conferenza su questo tema. Per questo ripeto l’appello a un cenno di riscontro.

Mauro Aurigi


[1] Leonardo Benevolo, uno dei massimi storici dell’urbanesimo, ne “La città nella storia d’Europa”(Laterza 1993) dice che la forza e la vitalità di una città dipendono soprattutto dall’essere città di mare o di pianura, per cui nessuna città “di montagna” in Europa, da quando la civiltà urbana ha ricominciato a fiorire dopo l’anno Mille, ha potuto competere con le città marinare o planizie. Con un’unica eccezione in tutta Europa: Siena che fino al XV secolo seppe tenere orgogliosamente testa a città come Firenze, Venezia, Milano o Parigi. E aggiunge letteralmente che “Siena è il risultato della sfida paradossale di un gruppo umano ad un ambiente che ne esce addirittura reinventato”. Da notare che nel libro è dedicato a Siena più spazio, anche se poco, che a Firenze.

[2] C’è chi sostiene che per notorietà planetaria il Palio sia secondo solo al Carnevale di Rio de Janeiro che però è cresciuto in una città di quasi 7 milioni di abitanti e che è la capitale morale di uno dei paesi più grandi del mondo. C’è da rimarcare che le due manifestazioni hanno anche analoga organizzazione. Anche quel Carnevale si basa sulla suddivisione territoriale della città, le favelas, autonome entità popolari che concorrono, come le Contrade di Siena, alla sfida a chi è più bravo, sfida che stimola emotivamente il senso identitario e di appartenenza. Proprio come il Palio.

[3] In una Città che al massimo aveva raggiuto i 60mila abitanti, ma storicamente ne aveva solo 20/30mila, quell’ “amore” è la causa prima anche di una Università quasi millenaria che aveva raggiunto i 25mila studenti, un Ospedale millenario che è il più antico del mondo e il più grande della Toscana nella città più piccola della regione, un turismo che in proporzione è tra i più corposi del Paese, e ciò solo per citare le maggiori realizzazioni e tanto per dire che i Senesi non devono ringraziare nessuno, né un principe, un papa o un capitano d’impresa, ma tutto devono solo a se stessi, anche le ferrovie, le superstrade e l’acquedotto. Ancora oggi, nonostante la crisi della Banca, per l’80/90% essi vivono economicamente e socialmente, direttamente o indirettamente, delle realtà che si sono costruiti da soli. Anche importanti organismi esogeni come quello farmaceutico (Gsk) e quello degli elettrodomestici (Whirlpool) sono stati impiantati su preesistenti attività endogene. Da segnalare infine che la presenza così importante di grandi Enti pubblici (anche il Monte era pubblico), produceva ricchezza, caso raro in un Paese dove il “pubblico” di solito la ricchezza la distrugge.   

[4]  Da rilevare che, da un punto di vista politico-culturale molto avanzato e progressista, non è la Stato che “protegge” i cittadini, ma sono i cittadini che “proteggono” lo Stato. Solo in ambienti molto conservatori e reazionari, che purtroppo sono la maggioranza, si sostiene il contrario. 

[5]  A tale proposito un ammirato Blaise de Monluc (tra i massimi condottieri del ‘500, spedito a Siena in rappresentanza di Enrico II di Francia) annoterà poi, nei suoi Commentaires:“Preferirei difendere Roma con le donne senesi piuttosto che con i soldati che là stanno”.  

[6]  “Lo stato è mio” sosteneva Cosimo 1°, ben prima del francese Roi Soleil, e forse per primo in Europa.

[7] Nomignolo con cui a Siena ci si riferisce affettuosamente al grande drappo di seta dipinta che va in         premio alla Contrada che ha vinto il Palio.

[8] Questo lo spiegò bene, ancorché involontariamente, Piero Barucci, preside di Economia all’Università di Firenze, quando Andreotti nel 1983 lo spedì al Monte come Presidente. Intervistato dal “Il Sole 24 Ore” che gli chiedeva che effetto facesse passare da una grande Università ad una grande Banca, rispose: “Un effetto stranissimo: dieci minuti dopo che si è presa una delibera nella Deputazione amministratrice (C.d.A, ndr) se ne discute al bar del Nannini. Ti senti sul collo il fiato della gente”. 

[9] Per la storia della Banca si può vedere qui:

[10]  Pare qui opportuno citare queste tre massime, intrise di umanistica virtù:

  • Non abbiamo bisogno di buoni politici, ma di buoni cittadini” (J.J. Rousseau)
  • “Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi” (B. Brecht)
  • “Non domandate cosa la Nazione deve fare per voi, ma domandatevi cosa voi potete fare per la Nazione“ ( J.F. Kennedy)

[11] Tutti hanno continuato a individuare, come causa unica della crisi del Monte, l’affare Banca Antonveneta, ma si tratta di un falso obiettivo: l’Antonveneta pesa sull’intero disastro, che è di circa 100 miliardi, per “soli” 14 miliardi (ossia 17 miliardi, il suo costo, meno i quasi 3 miliardi che fu il valore reale messo a bilancio). E aggiungo una mia valutazione personale. L’acquisizione dell’Antonveneta, nonostante il traumatizzante prezzo pagato, poteva essere un buon affare: il Monte sapeva come pochi altri resuscitare banche fallite (vedi la fiorentina Banca Toscana, fallita nella crisi degli anni ’30, o più recentemente la Cassa di Risparmio di Prato) solo che si avessero avuti allora i fondi necessari a pagarla. In tal caso il Monte sarebbe diventato primario in Italia e tra le prime banche in Europa. Ma in cassa non c’era più una lira: nei 13-14 anni di “mala gestio” trascorsi dal 1995, anno della trasformazione in spa, al 2008, anno dell’acquisizione dell’Antonveneta, l’eccezionale plurisecolare liquidità del Monte era stata incenerita. Dunque il fenomeno da indagare era soprattutto la scomparsa dei 100 miliardi complessivi piuttosto che i 17 pagati per l’Antonveneta. Ma incredibilmente si è preferito fare l’opposto.