COMITATO (PROVVISORIO) PER LA “Difesa della nostra lingua”

difesadellalingua@gmail.com

“De toutes les langues cultivées par les gens de lettre, l’italienne est la plus variée, la plus flexible, la plus susceptible des formes différentes qu’on veut lui donner. Aussi n’est-elle pas moins riche en bonnes traductions, qu’en excellente musique vocale, qui n’est elle-même qu’une espèce de traduction.”

 Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert (1717-1783),

padre della celeberrima enciclopedia francese e tra i massimi protagonisti dell’Illuminismo.

“…Un populu | mittitulu a catina | spugghiatulu | attuppatici a vucca | è ancora libiru. || Livatici u travagghiu | u passaportu | a tavola unni mancia | u lettu unni dormi | è ancora riccu. | Un populu, diventa poviru e servu | quannu ci arrubbano a lingua | addutata di patri: è persu pi sempri….”  

 Ignazio Buttitta, “ Lingua e dialettu”, 1970)

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Salviamo la lingua italiana

Siena, 2.1.2022

Carissima/o, ti preghiamo di armarti di un po’ di pazienza, perché desideriamo raccontarti una storia in due tempi.

Tempo n.1

Siamo negli anni ’70 del passato secolo. Lo scrittore Alberto Arbasino, discettando sulla neonata Repubblica di qualcosa che non ricordiamo, scrisse “superiority complex”, con tanto di traduzione tra parentesi: “(complesso di superiorità)”. Che sciocco, pensammo subito, può mai esserci un solo lettore della Repubblica che, pur ignaro di lingue, non capisca al volo il significato di quei due termini anglosassoni? Poi però riflettemmo: ma se temeva di non essere capito perché non ha scritto subito quella locuzione in italiano? Una buccia di banana, pensammo, su cui ognuno di noi ha diritto di scivolare ogni tanto. Poi però non passa una settimana che Arbasino si ripete con un “inferiority complex (complesso di inferiorità)”. E allora capimmo: gli Yankee sono ganzi, anzi, sono cool, e se scriviamo un poco come loro, allora diventiamo un po’ cool anche noi. Insomma una straordinaria forma di servilismo culturale, che è la forma peggiore di servilismo, perché alla servitù imposta con la forza ci si può ribellare, ma dalla servitù culturale, accettata volontariamente e con entusiasmo, non ci si potrà liberare mai. Non a caso noi Italiani siamo spesso internazionalmente noti per il nostro servilismo verso i potenti. Già allora cominciammo a temere il peggio. Infatti…

Tempo n.2

E’ passato mezzo secolo da allora e quel nostro vizietto è cresciuto tanto che ad oggi la situazione, rispetto a quanto riportato sopra, si è diametralmente rovesciata.

            In un questionario consegnato ai degenti dimessi da una nota clinica fiorentina, tra le varie domande c’è questa: “è stata rispettata la tua riservatezza (privacy)?”. E se il comico Brignano, intervistato in tv dal giornalista Piroso, usa il termine pomiciare, allora il giornalista si rivolge alla telecamera e dice agli ascoltatori: “Vuol dire petting!”. E se un giornalista su Il Fatto usa il termine scarto, si affretta subito a correggersi traducendolo tra parentesi in spread. Oppure se a una rivista  tecnica (Innova di Altroconsumo) sfugge per puro caso di usare il termine fonte si corregge subito, quasi scusandosi, traducendolo tra parentesi con “source”.  Insomma siamo già al punto che per capirsi tra Italiani dobbiamo fare ricorso all’inglese. Il che vorrebbe dire che saremmo ormai oltre il punto del non ritorno. Come il latino, che fino a due o tre secoli fa era la lingua aulica di mezzo mondo ed oggi non lo parla più nessuno, anche l’italiano diventerà una lingua morta, destino di tutte le lingue del Terzo Mondo. Prima o poi sarà parlato solo dai vecchi, morti i quali non sarà parlato più da nessuno. Esattamente come i nostri dialetti (di cui pure ci occuperemo).

Sono già molte migliaia gli anglismi nella nostra lingua e raggiungono il 50% in ambiti come quello della pubblicità, della moda o degli affari. Mai più si può leggere “prossima apertura”, bensì “opening soon”, anche in aree lontane da siti turistici. E perfino l’obitorio, negli ospedali, è diventato “morgue”. E così il Parlamento (il Parlamento!) ha accettato, senza che qualcuno alzasse almeno un sopracciglio, che il tempo delle interrogazioni venisse ufficialmente definito “Question time” e le leggi si chiamassero Jobs Act o Stepchild Adoption oWhistleblowers o Family Act,mentre la società civile accettava calorosamente, senza domandarsi perché, una misteriosa festa celtica come Halloween, così come è stato accolto l’ “Election day” o l’Open day e poi il Black Friday a cui ha fatto riscontro il White Friday delle nostre farmacie. E poi, per il reddito di cittadinanza, è arrivato il navigator (non navigatore, ma proprio navigator) che compilerà il dashboard per creare il marketplace. E recentissimo è arrivato il revenge porn, ossia la codarda vendetta dell’amante abbandonato. Proprio in questi giorni è apparso a Siena un grande manifesto in cui si annuncia che è stato aperto a Colle Val d’Elsa  lo store Happycasa. Bisogna convenire che se avessero annunciato l’apertura della “bottega Casafelice” la cosa ci sarebbe subito sembrata triste, infelice, provinciale, banale, insomma tipo Grand Hotel, al tempo dei telefoni bianchi. E lo stesso vale per “navigator” se confrontato con termini “meno nobili” come navigatore o navigante. Ecco come inconsapevolmente ci siamo ridotti! Addirittura siamo stati capaci di rinunciare alla parola “maremoto” in vigore da secoli, per sostituirla con “tzunami”, non appena abbiamo scoperto che gli Americani avevano adottato questo termine dalla lingua giapponese. Ed ora, con l’occasione della pandemia del Covid 19, c’è piovuta addosso una nuova, straripante ondata di anglismi: hub, smart working, cluster, greenpass, novax, booster, under, over ecc..

Per cui capita ormai che un bambino di appena due o tre anni possa rispondere alla mamma “Okay!”: quel bambino di sicuro da grande parlerà l’inglese meglio e più frequentemente dell’italiano – proprio come oggi si parla meglio e più frequentemente l’italiano del dialetto – e se vorrà leggersi Dante o Boccaccio (ma lo escludiamo perché la cultura non è roba da servi) lo farà preferibilmente nelle più accessibili e più comprensibili traduzioni inglesi, invece che nell’ormai ostico italiano trecentesco.

Conclusione.

Alcuni giorni fa parlando tra amici si è giunti alla conclusione che non si può accettare tutto ciò senza reagire. Dobbiamo fare qualcosa partendo proprio da qui, ossia dalla Repubblica di Siena che, prima in Italia, agli inizi del Trecento, addirittura prima della Comedia di Dante, tradusse dal latino al volgare la propria Costituzione che quanto a dimensioni è la sola opera letteraria in ottimo volgare dell’epoca che può essere comparata con il capolavoro di Dante (ne fu affissa una copia all’ingresso del Palazzo pubblico affinché “la povara gente che non sa di gramatica” potesse leggere e trascrivere ciò che le interessasse). Ed anche perché a Siena nel ‘500 fu fondata la prima scuola (internazionale!) di studio della lingua italiana.

Cominceremo col contattare tutte le iniziative italiane della specie (almeno una ventina sono su Facebook) per arrivare a un convegno nazionale qui a Siena in difesa della nostra lingua. Con quali programmi? Lo decideremo insieme se si riesce a organizzare quel convegno, ricordandoci però di questa affermazione di Bertrand Russel, forse il più grande pensatore del passato secolo: il nazionalismo politico è ripugnante perché sfocia nel fascismo, ma il nazionalismo culturale ha diritto di essere difeso e sostenuto da ogni popolo degno di questo nome. E noi siamo degni di chiamarci popolo? La lingua (ma anche il dialetto) fa certamente parte del patrimonio culturale di ogni popolo. Anzi ne sono l’espressione più importante. Noi ci sentiamo Italiani soprattutto perché parliamo la stessa lingua. Cosa saremo quando nessuno la parlerà più?

E che dire, allora, del fatto che l’unico paese al mondo che ha nella costituzione l’italiano come lingua ufficiale non è l’Italia ma la Svizzera? Il primo obiettivo potrebbe essere proprio quello di una mobilitazione affinché nella nostra Costituzione sia riconosciuto che l’italiano è la lingua ufficiale del nostro Paese. Quindi, sempre per esempio, potremmo brigare per ottenere che le pubbliche Istituzioni non usino termini stranieri quando nella nostra lingua esistessero termini equivalenti. Oppure potremmo anche arrivare a azioni di boicottaggio dei prodotti e delle aziende che facciano ricorso a termini stranieri quando non ce ne fosse alcun bisogno. Oppure potremmo “buttarci in politica”, sostenendo candidati che abbiano nel proprio programma la difesa della nostra lingua e osteggiando gli altri.

Ma, ripetiamo, lo decideremo tutti quanti insieme se riusciremo a mettere in piedi una massa critica tale da poter organizzare un convegno nazionale.

Intanto potreste dare un’occhiata alla nostra pagina Facebook: https://www.facebook.com/groups/114029098623025/ e, se siete d’accordo con quanto precede, per restare in contatto potreste fornire semplicemente nome, cognome, provincia e indirizzo elettronico a questa casella:

difesadellalingua@gmail.com

Infine fareste cosa gradita se diffondeste questo documento ai vostri contatti. Ad ogni buon conto sarete tenuti al corrente dei prossimi passi … hem… volevamo dire steps!

Infine: perché tutto ciò?

  1. Per ciò che ci riguarda personalmente, ma che non possiamo imporre ad altri, c’è una questione: vogliamo che resti scritto a futura memoria che qualcuno non solo non era d’accordo, ma si è battuto perché ciò non avvenisse. Oggi immaginiamo che i nativi americani sapessero che la loro resistenza fosse del tutto inutile, ma oggi noi abbiamo di loro un’opinione (empaticamente positiva) che non avremmo se non avessero fatto quell’ “inutile” resistenza. Dei nativi africani, proprio perché una resistenza del genere contro la colonizzazione dei bianchi non l’hanno fatta (magari l’hanno anche fatta – certamente gli Zulu – ma non hanno avuto una Hollywood che la celebrasse), non abbiamo la stessa ammirata opinione.
  •  Abbiamo la certezza, proprio perché la questione ci coinvolge ormai da mezzo secolo, che la maggioranza assoluta degli Italiani, più o meno convintamente, sia critica verso questo fenomeno. Una buona organizzazione potrebbe consentirci di mettere in moto un movimento nazionale con comitati ad hoc in ogni angolo del Paese.
  • E poi teniamo conto di un fatto: tutte le grandi lingue “globalizzanti” del pianeta, quelle del passato e quelle dell’attualità, sono state imposte con la violenza e la repressione: cinese, latina, araba, francese, spagnola e infine anglo-americana. Quest’ultima grazie all’espansione dell’enorme impero britannico prima, e poi grazie alle due sanguinose guerre mondiali che consentirono agli USA di diventare la massima potenza militare, politica, economica e culturale del mondo. Una sola lingua divenne “globalizzante” senza bisogno del ricorso alla violenza e alla repressione, ma solo spinta dalla forza civilissima della cultura: è la nostra. Diretta erede del latino, dominò per più secoli l’Occidente a partire dall’Umanesimo e, passando per il Rinascimento, oltre il Cinquecento. Ancora a fine Settecento Mozart ebbe occasione di lamentarsi perché per le sue opere doveva ricorrere a librettisti italiani. Ed è ancora, per quanto in difficoltà, la quarta lingua più studiata a livello planetario. Non ci confondiamo: noi Italiani abbiamo moralmente le carte in regola più di chiunque altro per difenderne la sopravvivenza.
  • Per cui non dovrebbe essere difficilissimo fare inserire nella Costituzione che l’italiano è la lingua ufficiale della Nazione. Ossia ogni cittadino sarebbe libero di parlare la lingua che vuole, ma le istituzioni sarebbero obbligate a non usare termini stranieri (in Francia lo prevede una legge dello stato). Un successo del genere potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso.
  • Dopodiché potrebbero bastare anche modeste minacce di boicottaggio economico verso le imprese che indulgono all’uso di anglismi per vedere cambiare le cose. Esempio: cosa succederebbe se fosse minacciata una campagna contro l’ENI, ossia se si chiedesse agli Italiani di boicottare le stazioni di servizio dell’ENI (YOU&ENI, self service, Voucher Carburante, Eni Shop 24h, Eni Wash, iperself, Café&Shop ecc.)? Oppure TIM (nella sola prima pagina del suo sito: home, smart life, myTim, community, weTim, Tim personal, Timgames, Timparty, entertainment, Timvision, Originals, Timconnect, ADSL, Timyoung, Timyoung e junior, social, chat, special edition, partners, powered, HUB, open innovation, TIMWCAP, Phishing, News, mail, new, online, Facebook, twitter, privacy e website)? Potrebbero ENI o TIM sopportare grazie alla nostra azione una riduzione del fatturato anche solo dello 0,5%, pur di perseverare su quella strada? Pensiamo proprio di no. Anche perché usano gli anglismi immaginando che siano simpatici agli Italiani. Il giorno che scoprissero che una massa critica invece li trova antipatici, correrebbero subito ai ripari.
  • Come si può sopportare che dietro gli autotreni spagnoli ci sia scritto “vehìculo longo” e dietro quelli italiani invece “long vehicle”? E lo stesso sugli autobus: “aire acondicionado” e “air conditioned”? E che Spagnoli e Francesi abbiano rispettivamente “calculador” e “ordinateur” e noi invece “computer”? Chapeau! ai Francesi che anche “picnic” l’hanno tradotto in “piquenique” e “on line” in “en ligne”!
  • E comunque vada, anche il solo tentare di mettere in piedi una simile battaglia globale non sarebbe divertente? I media sicuramente ci attaccherebbero, con ciò dandoci, involontariamente, una mano (parlate anche male di me, purché ne parliate, diceva Andreotti).
  • Infine: ci prende lo sconforto al solo pensiero che Americani e Inglesi, che sono una strettissima minoranza degli stranieri a spasso per Siena durante le feste di fine anno, vedendo i Merry Xmas e gli “Happy New Year in ogni vetrina, provino orgogliosamente la piacevolissima impressione di essere sbarcati in una lontana provincia dei loro imperi.

N.B.: Gene Di Caprio, un italo-americano che era stato ufficiale dell’esercito statunitense (servizi segreti) nella campagna d’Italia, ormai stabilitosi a Firenze, raccontava che, finita la guerra, il Comando USA autorizzò i militari di stanza in Italia a farsi raggiungere dalle mogli. Virginia, la giovane moglie americana di Gene, sbarcò a Napoli e scoprì subito che nelle strade, nonostante le distruzioni dei bombardamenti, sui muri polverosi si poteva leggere con facilità la scritta PIZZA. Alla seconda scritta Virginia domandò al marito: ma hanno la pizza anche in Italia? Non è una barzelletta: è vera.

Fine (…hops!… the end!)

per il COMITATO (PROVVISORIO) PER LA

“Difesa della nostra lingua”

Mauro Aurigi